Heineken Jammin’ Festival 2007 – 15/06/2007

C’è grigio, in mattinata. Si va all’Heineken Jammin’ Festival col bus, pronti alla seconda giornata. Spunta un gran sole e, in attesa dei primi gruppi, Gio Vox e io elargiamo qualche birra ai ragazzi che stanno in casa con noi e a qualche altro volto noto cremonese. Poi conosciamo Bam, un ragazzo a cui lasciamo l’indirizzo del Centro Musica, dice che ci spedirà il demo del suo gruppo grunge. Nel primo pomeriggio attaccano i Captain Mantell, altro gruppo vincitore dell’Heineken Jammin’ Festival Contest. In tre sul palco, tuta bianca da lavoro e occhialoni da sole, fanno una sorta di electroclash un po’ psichedelico. Gradevoli. Poi i Trikobalto, col loro rock italiano a tinte blues. Non male. A seguire Le Mani, pop italiano della peggior specie.
Si sono fatte le cinque passate.
Gio e io ci troviamo nella sala stampa, quando inizia a piovere.
Piove sempre più forte, tanto che l’acqua entra attraverso le fessure tra il tendone e i sostegni.
Poi non è più pioggia, è grandine, che picchietta sugli assi del pavimento e sui tavoli.
Qualche computer portatile si bagna, ci sono pozzanghere qua e là anche se siamo al coperto.
Tira aria, forte. Entra da tutte le parti. Qualcuno è visibilmente preoccupato.
Butto un occhio sulla zona trasparente del telone, e fuori vedo qualcosa che vola.
Ci sono gli alberi orizzontali, il vento dev’essere di una forza straordinaria.
Gli armadietti di metallo, anch’essi all’interno della sala stampa, vibrano, quasi cadono.
Acqua, grandine e vento a questo livello durano per circa tre minuti.
Quando tutto è finito, non ci siamo ancora resi conto di quello che è successo.
Cominciamo a capire la gravità della cosa quando usciamo all’aria aperta.
Lo scenario non è semplice da descrivere.
Anzi, è semplicissimo.
Non c’è più niente.
La zona del palco è devastata. Tutte le torri con maxischermi e amplificatori, eccezion fatta per le due ai lati del palco (più robuste), sono crollate come castelli di carte. C’è un cielo assurdo e non ci si può credere. Alle orecchie arrivano solo le sirene delle ambulanze, le sirene della polizia, il frastuono delle pale degli elicotteri di soccorso che già stanno scendendo. Vedo tante persone, specialmente ragazze, che parlano al cellulare e piangono a dirotto. Il pensiero, per quello che è successo, non può che essere uno. E in effetti questa cazzo di voce inizia a spargersi, C’è un morto, ma non è vero, si scopre poco dopo, e c’è già da essere sollevati. La situazione è comunque di merda, ci sono dei feriti. Le voci si sovrappongono, sento di tutto e il contrario di tutto. «Sono gravi?». «Ma che cazzo ne so». «No, non gravi». «E come cazzo fai a saperlo tu?». «Quanti?» «Nove». «Diciannove».
Gio e io ci avviciniamo alla zona di una delle torrette distrutte, ma veniamo allontanati in malo modo da uno della security. L’area del main stage è già un deserto desolato. Sul palco, che ha tenuto bene (giusto un paio di buchi nel tetto), era quasi pronta la scenografia per i My Chemical Romance, previsti come primi ospiti internazionali di questo venerdì orribile. Stavolta gli emo hanno un buon motivo per essere tristi.
Torniamo in sala stampa per un po’. Arrivano le prime telefonate da casa, spiego che sto bene, che stiamo bene, ma che è un macello totale. Ovviamente la giornata è annullata, non c’è bisogno di comunicazioni ufficiali per capirlo. Così, ci tocca anche rispedire telefonicamente a casa i vari amici che stavano arrivando (o che erano già arrivati). Ogni tanto il telefono tace e le chiamate non partono, perché le linee sono sature. L’area di ristoro ha più o meno retto, e così la struttura dove stanno le hostess. Non si può dire lo stesso delle transenne che delimitano le varie aree. La sfiga nella sfiga: la tromba d’aria ha colpito una zona davvero circoscritta, all’interno del gigantesco Parco San Giuliano. Quale? La zona del palco. A trecento metri dalla distruzione totale (i case pesantissimi volavano come sassolini), ci sono delle tende da campeggio – picchettate con quattro legnetti – che sono rimaste in piedi.
Gio riconosce e saluta il bassista degli Idols Are Dead. Poco più in là ci complimentiamo col resto del gruppo, che aveva aperto la giornata precedente. Ci facciamo lasciare un paio di copie del loro demo, ma naturalmente si parla solo dell’accaduto. Sono dispiaciuti in particolare per gli altri vincitori del contest, che non potranno provare come loro l’emozione di suonare sul palco principale, davanti a decine di migliaia di persone. Il numero dei feriti non è chiaro, ma almeno si sa per certo che nessuno si trova in pericolo di vita. C’è un mezzo trauma cranico, ci sono un paio di fratture ma, per l’apocalisse che si è scatenata, con le torri che sono crollate sulle persone che proprio lì cercavano riparo dal vento e dalla grandine, è andata ancora bene. Nell’idiozia isterica che una situazione assurda come questa può provocare, c’è anche tempo per dire due cattiverie sul tizio che, ferito e in stato confusionale, ha chiesto se poteva avere l’autografo dei My Chemical Romance.
Stiamo aspettando comunicazioni ufficiali da parte degli organizzatori, che arrivano alle sei e mezza circa con una conferenza stampa straordinaria. La corrente è saltata, niente microfoni, quindi stiamo tutti schiacciati per riuscire a sentire da vicino chi parla. Arriva la conferma che ci sono alcuni feriti seri, ma non gravi; loro dicono nove, numero destinato a triplicarsi sui giornali del giorno dopo. La verità sta nel mezzo, presumo. I concerti di venerdì e sabato sono annullati; si lavorerà per cercare di salvare la giornata di domenica. Una giornalista accenna già a una questione scomoda: perché è crollato tutto? Le strutture erano a norma? Viene liquidata con la motivazione che la questione non è urgente al momento, ma in effetti la domanda se la sono posta un po’ tutti. Poi però sentiamo dire che il vento soffiava ai duecento all’ora, e che davanti alla furia degli elementi c’è poco da fare. «Non erano ancorate al terreno, erano fissate a delle basi». Ah, ecco. Spiegato tutto. «L’area del palco è sotto sequestro». «No, non lo è». Non si capisce niente. La successiva conferenza stampa è fissata attorno alle nove di sera, ma Gio e io decidiamo di lasciare il parco. Rimediamo due panini a un baracchino in mezzo al nulla, mentre il cielo, beffardo, è tutto a nuvolette innocue. Spunta pure un solicello livido alle otto di sera, perché la presa per il culo sia completa.
Usciti dal parco, ci infiliamo nel primo bus, naturalmente farcito. Per arrivare dal Parco San Giuliano alla stazione ferroviaria di Mestre impiega poco meno di un’ora. Traffico congestionato, mezzi soppressi, treni fantasma. Eccone uno per Venezia Santa Lucia. Arriviamo a casa da Camilla alle dieci e mezza. Davide, Sergio, Andrea e Michele sono già lì. Dopo una pasta calda vediamo al telegiornale qualche servizio sul pomeriggio. Le immagini, riviste sullo schermo, sono quasi peggio. Ce n’è una emblematica: sullo sfondo gli alberi piegati facilmente dalla tromba d’aria mostruosa; in primo piano una sedia di plastica leggerissima, che però è ferma immobile perché non si trova nel raggio d’azione del tornado. Basta, cerchiamo di distrarci, facciamo due passi per Venezia (che splendore), andiamo a bere uno spritz. Ogni tanto si sorride, ma il pensiero torna sempre lì, ora – devo dire – non più tanto alla gente che si è fatta male, quanto ai gruppi che avremmo potuto vedere e non abbiamo visto (col cazzo che li scrivo, non ho intenzione di rigirarmi da solo il coltello nella piaga, e tanto voi sapete benissimo quali concerti sono saltati). Cominciamo a elaborare il lutto in serata… Il giorno dopo, salutati Camilla (grazie di tutto) e i quattro compagni di sventura, torniamo in stazione, compriamo il Corriere della Sera per leggere cos’ha scritto Francesco Verni sul Corriere del Veneto (che titola: «Crollo al concerto, terrore e feriti»). Scopriamo così che è ufficialmente annullata anche la giornata di domenica. Possiamo ufficialmente prendere il treno per tornare a casa. Fine dell’Heineken Jammin’ Festival 2007. Vaffanculo.

Carmine Caletti