Gio Vox e io partiamo presto per Venezia, nella mattinata di giovedì 14 giugno, esaltati non solo dalle giornate che ci attendono, ma anche dal fatto di essere accreditati come giornalisti per il Centro Musica. Questo significa sala stampa coperta, aria condizionata, hostess sorridenti che ci riforniscono di birra e acqua gratis all’infinito, nonché la possibilità di osare più di quanto il semplice accredito press offra. In giornata ci imbattiamo in molti ragazzi che, come noi, sono cronisti ma soprattutto fan; facciamo la conoscenza di giornalisti veri e propri, come Francesco Verni, firma del Corriere del Veneto (che esce impaginato all’interno del Corriere della Sera); scambiamo due parole con Carlo Pastore, inviato di MTV; scherziamo con i simpaticissimi (una volta tanto) ragazzi della security.
La nostra scelta è quella di concentrarci solo sul palco principale, ma in realtà è allestito anche un second stage con ottimi gruppi. Grazie all’ars retorica che mi contraddistingue (me la canto e me la suono…), Gio e io riusciamo a intrufolarci nella zona migliore tra quelle destinate al pubblico, una sorta di triangolo transennato che sta tra palco e mixer. L’obiettivo che mi prefiggo per il futuro è riuscire ad accedere al pit, cioè i pochi metri di spazio vuoto immediatamente di fronte al palco, zona a cui hanno accesso solo alcuni cameramen e fotografi superaccreditati, provvisti del succulento pass all areas. Anche nei sogni di Gio c’è un ritorno all’Heineken, però con il pass artist. Ma questa è una storia che deve ancora scriversi.
Ad aprire la giornata sul main stage sono i bolognesi Idols Are Dead, uno dei gruppi vincitori dell’Heineken Jammin’ Festival Contest (oltre duemila band partecipanti). Il genere proposto è sospeso tra l’eredità del thrash metal anni ’80 e la tendenza verso il nu metal contemporaneo. Bravi, con un gran tiro (soprattutto il bassista ci dà dentro un sacco) e un’ottima presenza scenica. Energici al massimo. Ne sentiremo senz’altro parlare ancora.
A seguire, una ragazzetta che non mi è nuova: Lauren Harris, raccomandatissima figlia del bassista degli… Questa ventitreenne, già vista al Datchforum di Assago a dicembre 2006, «fa un hard rock di strada privo di qualunque interesse» (cito il reportage che avevo scritto su quella serata), conferma di non avere niente da dire e di essere lì solo in quanto figlia di un personaggio leggendario. Si becca qualche grezzata da parte del pubblico, fa la sua mezz’ora e stop. Nel finale vengono lanciate alcune magliette del tour di Lauren Harris, una delle quali piomba su di me. La afferro al volo, però un altro tizio la prende sul lembo opposto. Rimaniamo a contendercela per qualche secondo, gli comunico sereno che non ci sono possibilità che io ceda, e lui – francamente un po’ stordito – mi propone una soluzione: se sulla maglietta c’è scritto il nome del chitarrista del gruppo, se la tiene lui; se c’è invece scritto il nome di Lauren Harris, la t-shirt sarà mia. Io accetto un po’ basito, poiché sicuro della vittoria. Diamo un’occhiata e, com’è ovvio, sulla maglietta non può che comparire il nome della frontwoman. Evvai, primo trofeo conquistato. Intanto Gio, per maggiore comodità, sceglie di indietreggiare un po’, mentre io rimango nelle primissime file.
Il gruppo successivo rappresenta la sorpresa della giornata, per quanto mi riguarda: i Mastodon. Potenza e sperimentazione possono coesistere. Passano dallo sludge ripetitivo e ipnotico al vecchio thrash senza compromessi, alternano velocità e lentezza, inseriscono qualche momento strumentale e quasi rumoristico per poi sfiorare il prog con tempi dispari e cambi inaspettati, utilizzano le voci nelle varie forme metal classiche ma anche nelle potenzialità più melodiche. Non li conoscevo. Grandissimi!
Poi, i Domine, campioni del power/epic italiano. Molto amati dal pubblico, che li sostiene costantemente, presentano brani del nuovo album affiancandoli a pezzi storici. Morby, il leader dai capelli lunghissimi, canta in modo assolutamente strepitoso. Come Gio suggerisce, uno dei trucchi del mestiere di un cantante è quello di allontanare il microfono dalla bocca sugli acuti più impegnativi. Morby, invece, va su, su, su, in modo estremo, sempre col microfono vicinissimo. Questa è sicurezza assoluta delle proprie capacità. La cosa vale anche per i quattro musicisti alle sue spalle, che suonano in maniera impeccabile. Ave Domine!
Rimangono i tre gruppi principali. Ecco gli Stone Sour, progetto parallelo di Corey Taylor, noto principalmente come voce degli Slipknot. Sono un buon gruppo, ma niente da fare, il nu metal fatto così mi annoia da paura. Corey si sbatte tantissimo, incita il pubblico, lancia bottigliette d’acqua (una benedizione, per noi che stiamo arrostendo al sole), bestemmia in italiano (applausi del Mar Nero metallaro) e dice a uno del pubblico «I love you, grande stronzo» (risate). Poi imbraccia una bella chitarra vintage e ci canta una power ballad intimista, famosa per aver fatto parte della colonna sonora di uno dei recenti giocattoloni supereroistici hollywoodiani (sono contento di non sapere quale e non me lo vado a cercare). Voto all’impegno: 8. Voto alla musica: 5.
Rimangono i due gruppi leggendari. Dopo un’attesa che comincia a farsi lunga, sul palco compaiono gli osannati Slayer. Io sono molto davanti, ma faccio immediatamente quattro bei passi indietro per evitare di morire nel violentissimo pogo che, è chiaro da subito, si scatenerà. La prima cosa evidente è che sono tutti molto brutti. Tom Araya se la ride compiaciuto per i cori adoranti che il gruppo riceve senza avere ancora iniziato a suonare. Lo stendardo gigantesco sul fondo del palco è un disegno dal tratto sporchissimo, al centro del quale spicca un Cristo sofferente, privo delle braccia, con dei 666, dei pentacoli e delle stelle di David tatuati qua e là, e la scritta Jihad sul petto. Tutt’attorno, teschi e cadaveri vari. Una cosetta sobria e di buon gusto! A voler fare per forza i culturali, si potrebbe interpretare il tutto come un’efficace critica ai grandi monoteismi. In realtà è solo l’ennesima suggestione orrida, una commercialata che non farà che accrescere i sospetti di antisemitismo e satanismo che molti nutrono sulla band e, di conseguenza, un’occasione di pubblicità. Ma passiamo alla musica. I suoni non sono fatti bene: la voce e una delle chitarre sono decisamente basse, a tratti sembrano sparire del tutto. Ma non si va per il sottile, tanto tutti conoscono a memoria ogni canzone. Vengono invocati i pezzi più famosi, che arrivano puntuali. Raining Blood è potenza allo stato puro, però io ho la conferma che il thrash troppo violento, suonato a badila sempre e comunque, non mi piace. In più, evidentemente, non mi sono simpatici, per via delle devianze ideologiche più o meno palesi a cui accennavo. Resta il fatto che ci sanno fare, nonostante qualche cappella riconoscibile, e che hanno una presa incredibile sul pubblico. Non appena hanno concluso, faccio immediatamente quattro bei passi avanti, scavalcando le salme di alcuni giovani deceduti nel pogo e guadagnando addirittura una posizione migliore della precedente. Seconda fila. Tra me e la transenna c’è solo un heavy metal biondo e barbuto, con la coda così lunga che la deve fermare in due punti. Arriva il buio, finalmente.
Rimangono gli headliner. «Maiden! Maiden! Maiden! Maiden!».
A soli sei mesi dalla prima volta, davanti ai miei occhi si materializzano ancora gli Iron Maiden! Conosco già l’imponente scenografia militare, in tema con l’ultimo disco A Matter Of Life And Death; questa data si colloca però all’interno del nuovo tour, intitolato A Matter Of The Beast, nel quale molto spazio è dedicato allo storico capolavoro The Number Of The Beast, che nel 2007 compie un quarto di secolo (come me). Bruce Dickinson, in stato di grazia, canta parti ancora più difficili rispetto ai dischi in studio, aggiungendo acuti e vocalizzi, anziché sottrarne! Il trio di chitarre formato da Adrian Smith, Dave Murray e Janick Gers è una garanzia (anche se Gers è un po’ discontinuo, ogni tanto si perde via a fare dei numeri al posto di suonare… Ma ci piace così); a chiudere il Sestetto Supremo, il bassista Steve Harris, sempre in perfetta forma, e l’idolo delle folle Nicko McBrain a percuotere le pelli. Lo spettacolo coinvolge completamente, il pubblico è in delirio per praticamente tutta la durata del concerto e gli appassionati più maniacali riconoscono le canzoni prima che inizino, interpretando a mano a mano le gigantesche illustrazioni che, come tante tende sovrapposte, scorrono una dopo l’altra a fondo palco. Il caso più eclatante è quello di The Trooper, durante la quale, come lo scheletro Eddie sullo striscione, Dickinson indossa una giubba rossa e agita un’enorme bandiera del Regno Unito, sporca e strappata. Ci sono classici come The Number Of The Beast, Run To The Hills, Fear Of The Dark e 2 Minutes To Midnight, brani recenti come la bella These Colours Don’t Run e perle inaspettate come Children Of The Damned. Sul brano-simbolo Iron Maiden si innalza il mostruoso carro armato il cui cannone punta sul pubblico, poi il pupazzone di Eddie soldato dagli occhi fiammeggianti invade il palco e la canna del suo fucile viene utilizzata da Janick Gers per suonare. Privi di cognizione! Alla fine del concerto vola di tutto: io desidero una bacchetta di McBrain oppure il polsino di spugna di Steve Harris con i colori del West Ham, squadra di calcio londinese di cui avevo notato una sciarpa in prima fila. Anche Harris stesso, durante il concerto, ne aveva individuato e salutato il possessore. Steve, però, scaglia la reliquia da tutt’altra parte rispetto a dove mi trovo io. E allora succede l’altamente improbabile: mi ritrovo tra le mani un altro plettro di Dave Murray, identico a quello che già avevo conquistato al precedente concerto di dicembre! Non ci posso credere.
Mi ricongiungo con Gio Vox e mi vanto subito del secondo (e principale) trofeo della giornata. In circa venticinquemila defluiamo verso l’uscita del parco, poi Gio e io ci incontriamo con Davide, Sergio, Andrea e Michele che, come noi, sono ospiti presso la gentilissima Camilla, universitaria a Venezia. Nonostante il weekend di esami, la fanciulla trova il modo di sistemare sei ospiti, ci fa il caffè, ci cucina la pasta… Una “mamma” favolosa. Grazie!
Stanchi morti e bruciati dal sole, ci buttiamo nei letti dopo aver fatto due chiacchiere esaltate dai concerti visti. Siamo felici, ignari del venerdì orribile che ci attende.
Carmine Caletti